Ettore Bertolè Viale
Ettore Bertolè Viale fu uno di quei personaggi che pervennero, viventi, a cariche prestigiose e poi, come spesso avviene, caddero nell'oblio e furono quasi dimenticati. Sarebbe bene però rivalutarne l'importanza e i meriti, anche in tempi di becero revisionismo, specialmente ora che le sue carte sono state assicurate al Museo del Risorgimento di Torino e Umberto Levra ha provveduto a pubblicarne recentemente le "Lettere dalla Crimea".
Bertolè Viale nacque a Genova, da famiglia originaria di Crescentino, il 17 dicembre 1829. Il padre, Felice Francesco, fu generale dell'esercito sardo e alla carica di generale pervenne anche il fratello Carlo Francesco. Entrato in accademia nel 1844, ne uscì anticipatamente col brevetto di sottotenente nel 1848, per partecipare alla prima guerra d'indipendenza nel 16° reggimento fanteria, brigata Savona, nel quale militava anche il fratello, ed ebbe il battesimo del fuoco nella giornata di Monzambano. Dopo la guerra entrò nello Stato Maggiore e con il grado di capitano prese parte alla spedizione di Crimea, dove ebbe modo di farsi apprezzare dal generale Manfredo Fanti.
Come nota il Levra, Fanti seppe coglierne le doti intellettuali e organizzative, "la sistematicità, la precisione, la perspicacia e la riflessivitàᅠ, la capacitàᅠ di comando, il sangue freddo e la risolutezza nell'azione e la pacata autorevolezza nella vita di ogni giorno".
Fu proprio grazie al Fanti che il giovane Bertolè poté intraprendere la sua brillantissima carriera. Fanti lo volle con sé anche nello Stato Maggiore della 2° divisione durante la campagna del 1859. Per la condotta tenuta alla Sesia, a Confienza, a Pozzolengo, a Magenta e alla Madonna della Scoperta fu insignito della medaglia d'argento al valor militare e della croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia.
Dopo Villafranca, seguì come segretario il Fanti che, tra il 1859 e il 1860, fu impegnato in una massiccia e tenace opera di amalgama delle varie forze che provenivano dagli eserciti degli stati annessi.. Diventato il Fanti ministro della Guerra, Bertolè si trovò improvvisamente innalzato a grandi responsabilitàᅠ anche politiche, ricoprendo la carica di capo di gabinetto al ministero della Guerra e partecipò alle trattative per gestire la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia.
Appena conclusasi questa non facile vicenda, Fanti assumeva il comando dei due corpi d'armata mandati ad invadere lo stato Pontificio. Anche questa volta volle con sé il Bertolè come capo di Stato Maggiore, incaricandolo poi di presiedere la commissione per trattare la resa di Ancona.
Era stato nel frattempo nominato maggiore e poi luogotenente colonnello per il comportamento tenuto nella campagna delle Marche e dell'Umbria.
Tornato a Torino nel gennaio del 1861, sempre come capo di gabinetto al ministero della Guerra, si trovò a gestire la liquidazione dell'esercito borbonico e quella dell'esercito garibaldino. Fanti assunse in proposito atteggiamenti innovativi e intransigenti che lo misero in aperto contrasto con il La Marmora che credeva di veder minacciata e distrutta la sua riforma. Fanti, attaccato su più fronti dal La Marmora e dai suoi sostenitori, fu costretto a lasciare il ministero.
Bertolè per il momento non fu toccato. Divenne anzi segretario generale del ministero della Guerra con Ricasoli e fu promosso colonnello. Con la caduta di Ricasoli e l'avvento di Rattazzi, saràᅠ però costretto a dimettersi. Fu nominato capo di Stato Maggiore del V Dipartimento militare, mentre Fanti ne era comandante.
Nel 1866 (Fanti era intanto morto nell'aprile del 1865), veniva promosso maggior generale e tenne, durante la guerra, l'intendenza generale dell'esercito, carica delicata per le implicazioni di carattere finanziario che comportava. Nel disastro che seguì alla campagna del 1866, fra beghe di generali, scontri di politici, attacchi di giornali anche Bertolè rimase coinvolto, ma seppe comportarsi con luciditàᅠ, sicurezza di sé, acume diplomatico, in un momento in cui la politica andava sempre più ingerendosi nelle faccende militari. Seppe uscire dal marasma onorevolmente. Nel marzo del 1867 veniva eletto deputato nel collegio di Crescentino, e nel giugno diventava aiutante di campo effettivo del re. Si schierò apertamente con il partito di Corte che cercava di riprendere il controllo sugli avvenimenti e con la nomina a presidente del Consiglio del Menabrea, ebbe il ministero della Guerra nel momento in cui l'invasione di Garibaldi nello Stato Pontificio richiedeva non comune fermezza e un saldo controllo dell'esercito.
Dopo Mentana cercò di riorganizzare l'armata, ma le sue proposte caddero con la caduta del Menabrea il 14 dicembre 1869.
Nel 1870 verràᅠ nominato dal re "Gran Cacciatore", carica che terràᅠ fino alla morte. Non si trattava di una carica meramente onorifica: aveva grossi risvolti sul piano organizzativo per sovrintendere a tutto il complesso apparato delle cacce reali e, cosa non trascurabile, metteva il Bertolè in diretto contatto con il sovrano, ponendolo ai vertici della sua Casa militare, con possibilità di interferire in parecchi affari, a volte anche delicati.
Con la scomparsa di Vittorio Emanuele nel 1878, qualcosa cambiò per sempre. Ebbe ancora onori ed incarichi: nel 1881 veniva trasferito dal comando del Corpo di Stato Maggiore a quello del VI corpo d'Armata; veniva nominato senatore; dall'aprile del 1887 al febbraio del 1891 fu nuovamente ministro della Guerra. Era ancora considerato e ascoltato a corte, come possiamo desumere, tra l'altro, dai Diari di Domenico Farini, anche se, con Umberto e Margherita, la corte, sempre più aperta a politici e faccendieri, diventava vieppiù intrigante e pettegola.
"Solitario, appartato, calmo, misurato, circospetto, gentile nei modi, sempre rigoroso nei ragionamenti", come lo definisce il Levra, non si sposò mai, viveva solo e andava progressivamente isolandosi.
Del militare conservò sempre l'eleganza del portamento e la prestanza fisica, tanto che una volta il Massari, in pieno Parlamento, lo chiamò il suo "avvenente amico", e Cesare Faccio, ricordandolo sulla Strenna de "La Sesia" per il 1894, scriveva: "L'epiteto rimase, e non a torto, come caratteristica dell'uomo, che a sessant'anni, e toccati, lavorando indefesso ai più alti uffici dell'esercito e dello Stato, pareva dovesse rimanere immoto su di un ottavo lustro interminabile".
Morì a Torino il 13 novembre 1892, a quasi sessantatre anni d'età.

Come nota il Levra, Fanti seppe coglierne le doti intellettuali e organizzative, "la sistematicità, la precisione, la perspicacia e la riflessivitàᅠ, la capacitàᅠ di comando, il sangue freddo e la risolutezza nell'azione e la pacata autorevolezza nella vita di ogni giorno".
Fu proprio grazie al Fanti che il giovane Bertolè poté intraprendere la sua brillantissima carriera. Fanti lo volle con sé anche nello Stato Maggiore della 2° divisione durante la campagna del 1859. Per la condotta tenuta alla Sesia, a Confienza, a Pozzolengo, a Magenta e alla Madonna della Scoperta fu insignito della medaglia d'argento al valor militare e della croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia.
Dopo Villafranca, seguì come segretario il Fanti che, tra il 1859 e il 1860, fu impegnato in una massiccia e tenace opera di amalgama delle varie forze che provenivano dagli eserciti degli stati annessi.. Diventato il Fanti ministro della Guerra, Bertolè si trovò improvvisamente innalzato a grandi responsabilitàᅠ anche politiche, ricoprendo la carica di capo di gabinetto al ministero della Guerra e partecipò alle trattative per gestire la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia.
Appena conclusasi questa non facile vicenda, Fanti assumeva il comando dei due corpi d'armata mandati ad invadere lo stato Pontificio. Anche questa volta volle con sé il Bertolè come capo di Stato Maggiore, incaricandolo poi di presiedere la commissione per trattare la resa di Ancona.
Era stato nel frattempo nominato maggiore e poi luogotenente colonnello per il comportamento tenuto nella campagna delle Marche e dell'Umbria.
Tornato a Torino nel gennaio del 1861, sempre come capo di gabinetto al ministero della Guerra, si trovò a gestire la liquidazione dell'esercito borbonico e quella dell'esercito garibaldino. Fanti assunse in proposito atteggiamenti innovativi e intransigenti che lo misero in aperto contrasto con il La Marmora che credeva di veder minacciata e distrutta la sua riforma. Fanti, attaccato su più fronti dal La Marmora e dai suoi sostenitori, fu costretto a lasciare il ministero.
Bertolè per il momento non fu toccato. Divenne anzi segretario generale del ministero della Guerra con Ricasoli e fu promosso colonnello. Con la caduta di Ricasoli e l'avvento di Rattazzi, saràᅠ però costretto a dimettersi. Fu nominato capo di Stato Maggiore del V Dipartimento militare, mentre Fanti ne era comandante.
Nel 1866 (Fanti era intanto morto nell'aprile del 1865), veniva promosso maggior generale e tenne, durante la guerra, l'intendenza generale dell'esercito, carica delicata per le implicazioni di carattere finanziario che comportava. Nel disastro che seguì alla campagna del 1866, fra beghe di generali, scontri di politici, attacchi di giornali anche Bertolè rimase coinvolto, ma seppe comportarsi con luciditàᅠ, sicurezza di sé, acume diplomatico, in un momento in cui la politica andava sempre più ingerendosi nelle faccende militari. Seppe uscire dal marasma onorevolmente. Nel marzo del 1867 veniva eletto deputato nel collegio di Crescentino, e nel giugno diventava aiutante di campo effettivo del re. Si schierò apertamente con il partito di Corte che cercava di riprendere il controllo sugli avvenimenti e con la nomina a presidente del Consiglio del Menabrea, ebbe il ministero della Guerra nel momento in cui l'invasione di Garibaldi nello Stato Pontificio richiedeva non comune fermezza e un saldo controllo dell'esercito.
Dopo Mentana cercò di riorganizzare l'armata, ma le sue proposte caddero con la caduta del Menabrea il 14 dicembre 1869.
Nel 1870 verràᅠ nominato dal re "Gran Cacciatore", carica che terràᅠ fino alla morte. Non si trattava di una carica meramente onorifica: aveva grossi risvolti sul piano organizzativo per sovrintendere a tutto il complesso apparato delle cacce reali e, cosa non trascurabile, metteva il Bertolè in diretto contatto con il sovrano, ponendolo ai vertici della sua Casa militare, con possibilità di interferire in parecchi affari, a volte anche delicati.
Con la scomparsa di Vittorio Emanuele nel 1878, qualcosa cambiò per sempre. Ebbe ancora onori ed incarichi: nel 1881 veniva trasferito dal comando del Corpo di Stato Maggiore a quello del VI corpo d'Armata; veniva nominato senatore; dall'aprile del 1887 al febbraio del 1891 fu nuovamente ministro della Guerra. Era ancora considerato e ascoltato a corte, come possiamo desumere, tra l'altro, dai Diari di Domenico Farini, anche se, con Umberto e Margherita, la corte, sempre più aperta a politici e faccendieri, diventava vieppiù intrigante e pettegola.
"Solitario, appartato, calmo, misurato, circospetto, gentile nei modi, sempre rigoroso nei ragionamenti", come lo definisce il Levra, non si sposò mai, viveva solo e andava progressivamente isolandosi.
Del militare conservò sempre l'eleganza del portamento e la prestanza fisica, tanto che una volta il Massari, in pieno Parlamento, lo chiamò il suo "avvenente amico", e Cesare Faccio, ricordandolo sulla Strenna de "La Sesia" per il 1894, scriveva: "L'epiteto rimase, e non a torto, come caratteristica dell'uomo, che a sessant'anni, e toccati, lavorando indefesso ai più alti uffici dell'esercito e dello Stato, pareva dovesse rimanere immoto su di un ottavo lustro interminabile".
Morì a Torino il 13 novembre 1892, a quasi sessantatre anni d'età.
Giorgio Giordano
3 commenti:
a quando un altro articolo così interessante?
anna maria
Ma non scrive più niente professore?
Sù, con tutto l'entusiasmo che aveva all'apertura di storia nostra, speravo in un seguito...
Forza e coraggio, se ha dei problemi di utilizzo del blog, mi contatti pure!
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