lunedì 17 novembre 2008

CARLO STEFANO GIULIO

Carlo Stefano Giulio nacque a San Giorgio Canavese il 6 dicembre 1757, concittadino del più celebre Carlo Botta. Il padre Pietro Filippo fu notaio in San Giorgio, il cugino Ignazio fu ingegnere e lavorò anche nel Vercellese. Apparteneva quindi a quella borghesia illuminata che chiedeva riforme e maggiore partecipazione nell’amministrazione del bene pubblico.
Si laureò in medicina presso l’università di Torino nel 1778 e fu nominato aggregato al collegio di filosofia e medicina il 15 dicembre 1783. D’ingegno sveglio, dotato di una memoria prodigiosa, come dice Tirsi Mario Caffaratto, nel 1787 fu professore di fisiologia e dal 1792 insegnò anche anatomia presso l’università.
Entrato in contatto con il medico Sebastiano Giraud, colui che aveva dato nuovo vigore alla loggia “La Mystérieuse”, tenuta sotto stretto controllo dall’opposizione di Vittorio Amedeo III, aderì alla massoneria, spinto dalla costante disposizione alla “ricerca della verità e della scienza” e per tutta la vita mantenne vivo l’atteggiamento dell’indagatore e dello studioso. Da vero illuminista si interessava degli argomenti più disparati, fossero essi le “pecore di Spagna” o il “grano di spiga nera” da lui introdotto sperimentalmente prima a San Giorgio e pi nel Vercellese. Questa sua passione lo portò a ricoprire anche alcune cariche in seno a diverse organizzazioni di carattere scientifico: fu infatti membro di numerose accademie e in particolare dell’Accademia delle Scienze, alla cui fondazione contribuirono alcuni massoni piemontesi e all’Accademia di Agricoltura, fondata dal Giraud e da altri fratelli, di cui divenne segretario perpetuo.
Tra il 1789 e il 1791 con il chimico Giovanni Antonio Giobert si fece promotore di una società filosofica che, come dice il Dionisotti: “divenuta centro delle ricerche per ,o addietro isolate le andava raccogliendo, onde servissero di materiale ad un giornale, che ben presto venne in pregio appo i dotti di tutta la penisola. Fu il primo giornale di questo genere che escisse alla luce in Piemonte, e servì mirabilmente a diffondere l’istruzione scientifica”.
Si intitolava “Giornale scientifico-letterario e delle arti di una società filosofica di Torino, raccolto e posto in ordine da Giovanni Antonio Giobert e Carlo Giulio, membri di varie accademie”, usciva con frequenza mensile a dispense di circa cento pagine. Più tardi (1801) farà parte della commissione deputata alla riforma degli studi che risulterà composta da ben tre fratelli: Botta, Giulio e Giraud, cui fu affidata la mansione di segretario.
Scoppiata la Rivoluzione in Francia, anche Giulio fu tra coloro che aderirono alle nuove idee. Sul finire del1793 faceva infatti parte, in Torino, del circolo che si riuniva presso il medico Ferdinando Barolo e del quale facevano parte alcuni dei più bei nomi di “repubblicani” di allora come Maurizio Pellisseri, Angelo Pico, Carlo Botta, Giovanni Battista Balbis, Federico Campana, Luigi Ghiliossi e Francesco Della Morra. Tutti costoro facevano capo al Tilly, Ministro del Comitato di Salute Pubblica in Genova ed ebbero poi parte importante nelle cospirazioni e nei disordini del 1794.
Nel 1796-97, ai tempi della prima calata di Napoleone,si mise ben presto in luce per le sue idee tanto che la polizia lo teneva sotto stretta sorveglianza ed egli stesso scrisse al Ginguenè, ambasciatore di Francia, il 19 dicembre 1798, che si era salvato per puro miracolo poiché era compreso in una lista di 57 individui che dovevano essere giustiziati “senza alcuna forma di processo”. L’avvento della repubblica gli consentì di ricoprire le prime cariche politiche: nel ’98 diventava infatti Commissario di Governo e nel ’99 era membro del Giurì medico militare e del Consiglio civile e militare. Durante l’occupazione austro-russa fu costretto a riparare, come molti altri, in Francia.
Ritornò in Piemonte dopo Marengo e il 4 ottobre 1800 venne chiamato dal generale Jourdan, ministro plenipotenziario della Francia nel Piemonte occupato, a far parte della commissione esecutiva di governo composta da Carlo Botta, Carlo Bossi e Carlo Giulio. Fu il famoso governo dei “tre Carli” che diceva ironizzando il Brofferio: “era una certa autorità come quella del segretario, del segretario, del segretario; comandavano quando il generale li lasciava comandare, e quando il Direttorio lasciava comandare il generale”.
Nonostante il pare del Brofferio fu questo un periodo tutto sommato importante per il Piemonte perché veniva riconosciuto il fondamentale “diritto che compete a tutti i Cittadini di manifestare liberamente i propri pensieri … e non si dovrà in verun modo diminuire l’influenza benefica della Libertà, della Stampa sulla Libertà civile sui progressi delle umane cognizioni e sulla prosperità nazionale”.
Si proclamò inoltre “che l’escludere chiunque dall’esercizio dei Diritti Civili ripugna ai principi della Libertà e dell’eguaglianza … che il libero esercizio dgli eguali diritti forma la base delle virtù sociali, promuove il perfezionamento delle Scienze e delle Arti e, mentre favorisce il commercio, assicura la difesa della stato”.
Si decretò inoltre che: “La diversità di Culto non produrrà più da ora in avanti in Piemonte veruna distinzione fra gli individui nell’esercizio de’ loro diritti civili, come nemmeno nell’adempimento de’ loro sociali doveri”.
Nel 1802 in compagnia di Carlo Botta, Giulio si recò a Parigi per portare i rallegramenti del collegio della Dora a seguito dell’annessione definitiva del Piemonte alla Francia, annessione che egli aveva sempre caldeggiato e propugnato.
Il 24 floreale dell’anno XXII (14 maggio 1804) Giulio veniva nominato, con decreto imperiale, prefetto del dipartimento della Sesia e prendeva effettivo possesso della carica il 23 pratile seguente (12 giugno 1804). Al momento in cui assumeva la carica il dipartimento della Sesia era un dipartimento “tranquillo” solo nei rapporti a Parigi: in realtà profondi problemi e contrasti lo travagliavano. Lo spirito pubblico, nelle campagne tra il popolo, non era certamente favorevole ai francesi, accusati di difendere ormai gli interessi della nobiltà e della grossa borghesia. L’inflazione e la carestia aggravavano la già precaria condizione economica; la coscrizione militare seminava il malcontento; il brigantaggio e il contrabbando prosperavano pressoché indisturbati.
Giulio cercò di risolvere tutti questi problemi con una tenacia e un ardore veramente ammirevoli, sempre vigile ed attento, vero esempio dell’efficientismo amministrativo napoleonico, si muoveva in mezzo a difficoltà e a situazioni che non incoraggiavano troppo la buona volontà di un funzionario. Circondato di diffidenza, affiancato da collaboratori non sempre eccellenti sotto il profilo della capacità e non sempre fedeli sotto quello dei sentimenti, doveva agire con circospezione e con intelligenza per svolgere appieno il proprio dovere.
Intensificò nel dipartimento l’attività di polizia e per suo ordine tre colonne armate di 400 uomini ciascuna saranno obbligate a percorrerne il territorio in lungo e in largo per mantenervi la tranquillità ed evitare disordini e sedizioni. Sarà grazie alla sua perspicacia se nel 1806 si potrà sventare una grossa congiura che sarebbe dovuta scoppiare nel Biellese e nel Cossatese e che avrebbe potuto avere ben più gravi ripercussioni per i legami che i congiurati intrattenevano con altre regioni come l’Alessandrino e il Piacentino.
La sua energia non si rivolgeva soltanto contro i cospiratori politici, colpiva anche il brigantaggio, piaga non mai del tutto estirpata dai nostri dipartimenti. Vennero sgominate bande di un certo nome come quella dei Canattone, che operavano nella zona di Formigliana, o come quella di un certo Maccia che operava nella zona di Masserano, Cossato e Mosso Santa Maria.
Dovette lottare con severità contro il contrabbando, poiché, essendo il dipartimento della Sesia zona di confine con il Regno d’Italia, questa piaga prosperava, protetta dalle autorità locali, tanto che il Tarle osservava che il contrabbando alle nostre frontiere “aveva assunto … l’andamento e i procedimenti di un commercio regolare e perfettamente lecito”.
Operò con una certa severità anche riguardo al problema della coltivazione del riso. Le risaie continuavano a crescere e la zona di rispetto nelle immediate vicinanze della città e dei paesi veniva continuamente violata e i regolamenti aggirati. Il Giulio, che nella sua qualità di medico non sottovalutava il pericolo della proliferazione della risaia che causava febbri e malaria, prese più volte posizione contro gli abusi, ma si ebbe infine, per tutta risposta, un dispaccio del ministro dell’Interno Champagny, che lo invitava a tenere un comportamento più conciliante nei confronti dei grossi proprietari, invocando l’articolo 544 del Codice Civile che proclamava la libertà dei medesimi di seminare e coltivare il riso come loro meglio aggradava e a tutto dispetto delle più elementari norme di salute pubblica.
Della salute pubblica si preoccupò ance in altre occasioni ma i pregiudizi radicati nelle popolazioni ne ostacolavano grandemente gli sforzi. Per ovviare agli effetti della carestia veniva propagandata nelle campagne la coltura della patata, ma malgrado gli incentivi del governo e del prefetto, le popolazioni preferivano di gran lunga la tradizionale polenta al tubero.
Sempre vigile, il prefetto si interessava di ogni cosa, voleva essere messo al corrente di tutto e brigava per le frodi alimentari, quelle del pane specialmente, o per la mancata applicazione dell’editto di St. Cloud sui cimiteri suburbani. Si dava da fare per combattere il vaiolo che mieteva parecchie vittime nelle nostre zone. A tutto il 1806 nel Vercellese,secondo i dati del Dionisotti, furono vaccinate 3531 persone, numero considerevole in rapporto alle circostanze e agli ostacoli che si dovettero superare, ma esiguo se si raffronta con la popolazione del circondario che era di 74.761 persone.
Altra piaga per le popolazioni fu la coscrizione militare. Essa sottraeva al lavoro braccia valide in una condizione generale già delicata ripercuotendosi soprattutto sui ceti meno abbienti, rendendo obbligatorio quello che era sempre stato considerato un mestiere come un altro, mandando a morire dei giovani per una causa che non sentivano affatto, scatenando così profondo malcontento.
Si cercava di sfuggire alla coscrizione in ogni modo: dandosi alla macchia, emigrando all’estero o procurandosi attestazioni di false malattie. Le stesse popolazioni proteggevano i coscritti. Si fornivano loro viveri, asilo, documenti falsi. Le speculazioni non mancavano. Nel gennaio 1806 suscitò un certo scalpore il caso del medico Paolo Bossi di Crevacuore condannato a due anni di reclusione e a mille lire di multa per aver diagnosticato “malattie chimeriche” sulle persone di diversi coscritti. La coscrizione dell’anno 14 aveva dato luogo a parecchie misure di rigore, ma la loro efficacia fu, nonostante tutto, piuttosto scarsa. Il prefetto e suoi sottoposti operarino con una certa durezza. Nel gennaio vi furono sequestri, prelevamenti di mobili e di masserizie, perquisizioni e ammende per migliaia di franchi nelle zone di Gattinara, Cossato e Crevacuore. Già fin dal novembre-dicembre del 1805 nella zona di Donato vennero impiegati i “garnisaires”, soldati destinati di guarnigione in casa e a spese delle famiglie dei coscritti renitenti.
Anche nel campo della pubblica finanza l’opera del Giulio non fu priva di efficacia. Venne riveduto il sistema tributario e si cercò di imporre una tassazione più equa suddividendo i contribuenti in cinque classi e in proporzione alle loro possibilità finanziarie. Una commissione con a capo il prefetto venne istituita a tale scopo nel 1805 e incaricata di redigere annualmente l’elenco dei 600 maggiori contribuenti del dipartimento. Il compito venne espletato ottimamente dal Giulio e dai suoi collaboratori: le liste venivano di continui aggiornate e trasmesse a Parigi e il dipartimento della Sesia poteva in tal modo procurare all’erario statale, fra imposte e tasse, un gettito che l’Ordano ha calcolato aggirantesi intorno ai tre milioni annui. Attività poliedrica e incessante, come si può ben vedere, condotta con infaticabile solerzia.
I molti meriti che il Giulio aveva acquistato presso il governo gli fruttarono nel 1804 la Legion d’Onore. Nel 1808, con decreto imperiale del 28 ottobre, veniva nominato presidente del collegio elettorale di Chivasso e l’anno seguente, il 15 agosto, Napoleone lo creava barone dell’impero con una dotazione di 4.000 franchi.
L’attività prefettizia gli limitava grandemente il tempo per dedicarsi alle sue occupazioni di carattere scientifico e di questo si doleva profondamente. Scriveva all’amico Bossi, commissario straordinario del Regno d’Italia a Torino, nel febbraio del 1806: “Insomma senza istare sopra le pretenzioni, Voi avrete cura di scrivermi, sempre che la natura degli affari, e lo sfogo dell’amicizia il richiederanno, ed io farò lo stesso, con questo divario, che a Voi rimane assai tempo da conservare inoltre alle arti da Voi amate e che a me non rimangono che menomissimi ritagli, per leggere o scrivere qualche coserella alla spezzata intorno alle Scienze che fecero ognora le mie delizie”.
La prima sconfitta di Napoleone a Lipsia nel 1813 fu per lui un colpo tremendo, perse il lume della ragione e dovette essere ricoverato il 12 novembre 1814 nel manicomio della Senavra a Milano dove si spense il 1° maggio 1815.


Giorgio Giordano

domenica 20 luglio 2008

ALESSANDRO FERRERO DELLA MARMORA

Alessandro Ferrero della Marmora (anche Lamamora) nacque a Torino il 27 marzo 1799, alle 9,30 del mattino, dal Marchese Celestino, capitano nel Reggimento di Ivrea, morto a Torino nel 1805, e dalla contessa Raffaella Argentero di Bersezio. Fu battezzato in San Giovanni alle ore 17.00 del giorno stesso, avendo per padrino il fratello Carlo Emanuele e per madrina la sorella Cristina (1). Torino era occupata dai Francesi e bombardata dagli Austriaci; il marchese Celestino decise nel maggio di inviare la moglie e i figli a Biella, mentre egli si sarebbe fermato a Torino con un suo vecchio zio. Verso i sei anni incominciò a studiare sotto la guida delle sorelle. Nel 1809, a dieci anni, veniva nominato paggio del principe Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, Governatore del Piemonte.

Fu quindi educato ed istruito a Palazzo Chiablese, sotto la guida del conte Provana, dimostrando interesse spiccato per le scienze matematiche e fisiche.

Con la Restaurazione e il ritorno dei Savoia in Piemonte, Vittorio Emanuele I lo nominò,il 28 luglio 1814, sottotenente soprannumerario nel reggimento Guardie e servì agli ordini del colonnello Del Borgo e del fratello Alberto (2). L’8 maggio 1815 veniva nominato sottotenente effettivo. Nella bella e numerosa famiglia (come appare nel dipinto dell’Ayres) Alessandro era l’ottavo di tredici figli; ben sette fratelli abbracciarono la carriera delle armi: quattro furono generali e due furono insigniti dell’Ordine dell’Annunziata, Carlo Emanuele ed Alfonso.

Con i Cento Giorni e il ritorno di Napoleone dall’Elba, le truppe piemontesi furono mandate in Savoia e posero l’assedio a Grenoble. Alessandro apparteneva ad un reparto che non doveva entrare in combattimento, ma riuscì a brigare fintanto che ottenne di sostituire un vecchio porta bandiera di nome Pagliano e il nome di Pagliano gli rimase per sempre fra i militari. La sua divisione arrivò a Grenoble il 10 luglio e fu impiegata in un modesto scontro. Qui ebbe un incidente di caccia che gli procurò temporanei danni alla vista e l’amputazione della falange di un dito. La divisione si diresse poi verso Voreppe, sulla via di Lione, ma la battaglia di Waterloo pose fine al conflitto e alle sue speranze di gloria.

Nell’aprile del 1816 venne nominato sottotenente nei Granatieri Scelti e nel 1817 gli venne conferito il grado di luogotenente d’ordinanza sempre nei granatieri. Carlo Felice gli conferì il 19 gennaio 1822 l’ ”Abito e Croce di Giustizia della Sacra Religione dell’Ordine Militare dei Santi Maurizio e Lazzaro”.

Era allora luogotenente nel reggimento granatieri Guardie. Nel 1823, il 23 febbraio, veniva promosso capitano di categoria permanente (3).

Dopo i fatti del 1821 e la battaglia di Novara, La Marmora si dedicò a studi di carattere militare e topografico. Viaggiò in Francia, in Inghilterra, in Svizzera, in Tirolo, al fine di procurarsi notizie sugli eserciti degli altri stati. Esperto di balistica, attrezzò addirittura un’officina in casa propria per sperimentare armi e munizioni. Veniva intanto elaborando un piano per riformare le truppe di fanteria.

Nel 1831 presentò al ministro della Guerra (4) una proposta per la costituzione di una Compagnia di Bersaglieri, armata con una carabina da lui stesso ideata (5). Per ragioni politiche e di bilancio la proposta non fu presa in considerazione. Presenterà una nuova proposta nel 1835 e questa volta Carlo Alberto la prenderà in considerazione decretando, il 18 giugno 1836, la nascita del Corpo.

A rigor di termini il vocabolo bersagliere era già in uso prima di La Marmora. Il dizionario del Grossi del 1833 recita infatti: “Bersagliere, soldato che combatte alla spicciolata e a branchi al di fuori della fronte del battaglione”.

La Marmora, però, definisce i suoi “bersaglieri tireurs”, bersaglieri, cioè, esperti nel tiro. Mentre i vecchi dovevano “distendersi, coprire con fuoco tutta la linea, correre sparando”, i suoi “debbono invece portarsi in siti coperti, non sparare che giunti a sicura portata, concentrare gli spari su di un punto solo, non porre altra cura che di colpire con esattezza” (6).

Come nota il generale Piola Caselli i bersaglieri di La Marmora “sono fanterie scelte e speciali. Scelti nelle qualità fisiche e morali-speciali per l’arma e l’impiego” (7).

Devono impegnarsi senza essere troppo impetuosi, intelligenti, pronti, svelti e robusti. Essi si muovono non per grossi schieramenti ma per piccole unità tattiche. La Marmora crea la squadriglia: tre uomini e un capo, che si affidano al movimento celere e al fuoco efficace. “Il tiro deficiente di molti –scriveva- non vale quello di pochi tiratori. Secondare con la precisione del tiro ogni operazione principale. I tiri portino scompiglio nelle file avversarie concentrandoli sui punti deboli dell’avversario come fossero un’artiglieria di piccola portata di grande mobilità” (8).

Suggeriva anche dove trovare le truppe più adatte a questo scopo: “Molte Provincie e principalmente Casale, Acqui, Alessandria, Asti, li monti Liguri e il Nizzardo possono fornire con maggior successo di questa Truppa” (9).

Osservava poi in una nota della sua proposta: ”Le Alpi che circondano il Piemonte internandosi nella Savoja contengono nelle rachiuse valli, gente abilissima nel tiro della carabina scanalata, mantenendosi in quell’esercizio ora colla caccia ai Camossi, ora col giuoco del Tavolazzo. Il Nizzardo, ed i monti Liguri producono quantità di abili tiratori fatti alla caccia, ed i paesi delle pianure sono ripieni di Cacciatori, essendovi pur’anche in varii di Essi dei giuochi da Tavolazzo” (10).

Per armare i suoi uomini La Marmora costruisce un’arma micidiale: una carabina a retrocarica che venne presentata già con la prima proposta del 1831: “avvicinandosi di nascosto fino a 200 ed anche 250 passi dallo avversario, -notava- la mia arma possiede contro il fucile ordinario –a tempo eguale- una probabilità di colpire di 10 contro 1” (11).

Era una novità assoluta, tanto che la Commissione chiamata ad esaminare il progetto decretò che “la sua combinazione era il prodotto di una immaginazione non corredata dai lumi della pratica” (12).

Fu costretto a rivedere la sua proposta e nel 1836 presentò una carabina perfezionata ad avancarica, nota poi come carabina Lamarmora, che illustrerà con un opuscolo dal titolo Alcune norme sul fucile di fanteria e particolarmente nel Piemonte, risultato di ben venticinque anni di tiro al bersaglio (13).

Il vercellese generale Eusebio Bava (14) scriveva ammirato nel 1839: “Varie esperienze provano la bontà della carabina di Lamarmora. Nelle diverse esperienze di tiro a cui ho assistito in Italia ed all’estero, non vidi mai risultati migliori” (15).

Anche nell’abbigliamento dei suoi uomini La Marmora si dimostrò un innovatore, ricco di senso pratico e di buon gusto. La qualità prima del bersagliere dovrà essere la leggerezza che non deve però, andare disgiunta da una certa robustezza di equipaggiamento: più leggero e più indipendente del fante, ma con quaranta cartucce in più. Occorreva “ridurre il peso ai minimi termini col togliere il superfluo, scegliere oggetti che richiedono poco tempo per la cura mercé la qualità della materia loro; esimersi per quanto si può dalla vista del nemico. Mediante la scelta dei colori oscuri e tenere presso di sé quanto fa d’uopo per difendersi dal freddo massimo, dalle intemperie alpine, dalla dirotta pioggia e dalla fame” (16).

Il cappello piumato fu poi l’elemento che maggiormente caratterizzò il bersagliere e lo rese celebre. Fu concepito da La Marmora per riparare la nuca dal sole ed impedire alla pioggia di penetrare nel collo. Il modello primitivo aveva una guarnizione di metallo semplice e leggero e l’ala posteriore abbassata; piume di cappone scure per la truppa, verdi per gli ufficiali. Sul cappello spiccava il numero della compagnia fino a quando raggiunsero la 108a, poi il numero di battaglione e poi quello del reggimento. Il trofeo raffigurava una cornetta dei cacciatori, due carabine e al centro una bomba accesa con fiamma inclinata. Poiché la tesa del cappello impediva di riposare con la testa per terra, era prevista una berretta metà cremisi e metà grigia. Il fez rosso sarà adottato dopo la campagna di Crimea, forse prendendolo a modello dagli zuavi francesi.

Convinto dell’importanza dei segnali e dei collegamenti, La Marmora volle parecchi trombettieri e istituì nei battaglioni la fanfara che divenne un altro degli elementi caratteristici. Particolare cura era riservata all’educazione fisica con esercitazioni collettive in cui corsa e passo rapido erano andature normali anche in caserma, con frequenti esercitazioni di tiro, scherma di baionetta e di bastone, marce a tappe forzate.

La Marmora dovette vincere parecchie opposizioni non ultima quella del ministro della Guerra Villamarina (17). Nel frattempo, il 29 dicembre 1835, ottenne il grado di maggiore dei granatieri. Il 30 gennaio 1836, finalmente, la divisione di fanteria del ministero di Guerra e Marina presentava al re una relazione nella quale venivano dettate le norme generali secondo le quali sarebbe stato possibile creare un corpo di bersaglieri. Il 18 giugno 1836 Carlo Alberto con il regio brevetto numero 138 “instituisce nell’Armata un Corpo di Bersaglieri; ne determina la composizione, la forza, il servizio, e l’instruzione, il corredo, l’armamento, le paghe, ed i diversi altri benefizi” (18).

La prima compagnia di bersaglieri si formò il primo luglio 1836 e aveva tra i suoi effettivi tredici granatieri, il corpo da cui la fece gemmare La Marmora. Il primo ad indossarne l’uniforme fu proprio un granatiere, il sergente Vajra, che venne presentato personalmente dal fondatore a Carlo Alberto.

La nuova divisa non mancò di attrarre ammirazione e anche stupore. Il Corsi (19), che in una sera di pioggia arrivava a Torino proveniente da Alessandria, ne vide uno per la prima volta e fu sorpreso da quella “strana figura di uomo nero” con un “capellaccio a larghe tese messo a sghimbescio, un mantelletto serrato al collo e stranamente corto, calzoni di foggia militare e di sotto al mantello, l’estremità di uno schioppo e la punta di un fodero d’arme.[...] Vidi poi per le vie di Torino altri di quei soldati senza quello strano mantelletto, col pennacchio svolazzante, in farsetto succinto, svelti, vivaci, risoluti”. Fu ancora più sorpreso quando gli furono dette di loro cose mirabili e cioè che “erano capaci di fare tre chilometri di corsa in 20 minuti, e poi scavalcare muraglie, inerpicarsi per greppi e balzi, saltar fossi e siepi, poi tirare a segno a colpo sicuro a sette od ottocento passi”. [...] Una mattina là dietro Piazza Vittorio Emanuele udii un infernale disaccordo di stridule trombette e vidi sfilarmi dinnanzi in un minuto, un 400 di quei diavoli turchini; andavano a passo speditissimo, quasi a slanci, curvi sotto il peso di enormi zaini, con le carabine in bilancio. Tutto quello scuro, quei neri pennacchi svolazzanti, quello stridere di trombe e quel passo precipitoso, avevano un certo che di tempesta da scuotere i nervi ed infiammare il cervello. [...] Li rividi in autunno sulle lande di S. Maurizio, stormeggiare sparsi e tirare a segno. Erano davvero svelti corridori e tiravano a meraviglia” (20).

Il Corpo ebbe subito lusinghieri riconoscimenti. Il generale tedesco Deker scriveva ammirato:”I bersaglieri, vestiti ed armati in modo speciale, ben addestrati ai combattimenti isolati, formano una mirabile fanteria leggiera che, a nostro avviso, è solo superata dagli zuavi di Algeria” (21). E il visconte Chulot, studioso dell’esercito sardo, non poteva fare a meno di notare che la creazione del corpo dei bersaglieri era un progresso dell’arte militare di Sardegna (22).

Il primo gennaio 1837 si formava una seconda compagnia di bersaglieri, nel 1839 una terza. Soltanto nel 1848 se ne formerà una quarta.

Il 30 gennaio 1840 il re promosse La Marmora luogotenente colonnello e lo confermò comandante del Corpo. Il 9 aprile 1844 veniva promosso colonnello.

Finalmente il Corpo c’era; occorreva ora il battesimo del fuoco per consacrarlo ufficialmente. Avvenne al ponte di Goito l’otto aprile 1848 durante la prima guerra per l’indipendenza italiana. Il 23 marzo Carlo Alberto aveva dichiarato guerra all’Austria. Il 25 marzo entrava in Milano abbandonata da Radetzky. Gli austriaci si schierarono sulla linea del Mincio, mentre i due corpi dell’esercito piemontese stavano arrivando: il generale De Sonnaz si diresse su Monzambano, il generale Bava su Goito. L’otto aprile le avanguardie piemontesi giungono a Goito e devono occuparla. Il ponte che divide la città da una borgata situata sulla riva opposta è stato minato. I bersaglieri attaccano per primi su due colonne: quella del capitano Lyons e quella del capitano Muscas, rinforzate da un reparto delle Real Navi e da un plotone di cavalleria. La Marmora stesso comanda l’attacco al ponte che deve favorire l’aggiramento della città e portare l’offensiva su due fronti. Mentre cavalca alla testa dei suoi uomini è colpito da un proiettile, partito dall’Albergo della Giraffa, che gli fracassa la mandibola e lo ferisce al collo. Cade da cavallo. Un ufficiale austriaco cerca di catturarlo, ma La Marmora lo uccide con un colpo di sciabola. Nel frattempo il ponte salta. I bersaglieri non si perdono d’animo e riescono a lanciarsi sull’arcata del ponte rimasta intatta. Il primo a slanciarsi sulla spalletta è il bersagliere Gasconi di Stradella, seguito dal sottotenente Galli della Mantica che, colpito in pieno petto, cade nel Mincio, primo ufficiale morto per l’indipendenza italiana. Il primo bersagliere, Giuseppe Bianchi, era caduto a Marcaria, durante una scaramuccia con alcuni ulani austriaci, il 6 aprile.

Dopo un attimo di sbandamento, il capitano Zaverio Griffini, comandante della Legione Volontari Lombardi, riesce a raggiungere la riva opposta e, con l’aiuto di alcuni compagni, fa prigionieri cinquantatre avversari e si impossessa di un cannone. Sarà premiato con la medaglia d’oro al valor militare, primo nell’esercito a ricevere tale ricompensa.

Il generale Bava annotava compiaciuto: “Questo primo e splendido fatto contro le migliori truppe austriache, poiché si trattava di circa mille dugento fanti tutti Tirolesi e sessanta cavalieri, condusse in nostro potere cento prigionieri ed un cannone, e soddisfece pienamente a S. M., che pochi giorni dopo degnavasi venire in persona a premiare sul luogo i valorosi che più distinti si erano” (23).

Tutti gli ufficiali ed un furiere dei bersaglieri presenti al fuoco vennero promossi di grado. La Marmora sarà poi decorato con la croce mauriziana.

La sera del fatto d’armi, il fratello di La Marmora, Carlo Emanuele generale e aiutante di campo di Carlo Alberto, si reca a visitare Alessandro che era subito stato trasportato a Casa Piccioni a Bozzolo, nei pressi di Goito. Lo trova grave, ma non in pericolo di vita. La palla, entrata dal mento, ha fracassato la mandibola destra ed è uscita sotto l’orecchio, asportandogli parecchi denti. Per lungo tempo sarà costretto a portare uno speciale apparecchio di ferro. Scrivendo al fratello Carlo Emanuele il 27 aprile Da Bozzolo dice: “Mais la ganâche tarde a se former” (24) e il 24 maggio, scrivendo alla sorella Cristina Seysel d’Aix, la informa che la ferita è migliorata e porta intorno al viso solo una striscia di cuoio ma il volto è ancora sfigurato (25).

Durante il forzato riposo scrisse le Istruzioni provvisorie per i Bersaglieri e un trattato di tiro ad uso dei volontari. I suoi uomini intanto combattono valorosamente a Pastrengo e a Santa Lucia, a Peschiera e a Governolo, dove furono protagonisti di un audace colpo di mano per la conquista del ponte. Il generale Bava ricorda con soddisfazione che furono presi due cannoni, la bandiera del reggimento Rokavina, 400 prigionieri, otto ufficiali nonché molte armi e cavalli (26).

Il 27 luglio Alessandro La Marmora venne nominato maggior generale. Il 9 agosto il generale Salasco firmava l’armistizio che concludeva la prima fase della guerra. La Marmora si trasferirà a Castel San Giovanni, dove attenderà a riorganizzare i suoi soldati dopo aver assunto per breve periodo il comando della brigata Piemonte. Scrivendo al fratello Alfonso, diventato ministro per gli Affari di Guerra e Marina, si lamenta della visita effettuata presso le sue truppe: “J’ai trouvé dans tous les Bataillons un esprit d’insouciance et de far niente qui m’irrite. Messieurs les officiers ne savent que se faire servir par leurs mâitres de maison, se lever a 11 heures, manger tout le jour et jouer toutte la nuit» (27). Si lascia sfuggire anche un giudizio negativo sulla Relazione di Bava che ha appena letto: “Il devoile en pubblic nos défaut et il ne pense pas qu’il as lui aussi contribué à les former. [...] il ne’est pas exact, il n’est pas juste [...] pas le moindre raisonement sur ces operations [...] pas la moindre notion Topographique ou politico – militaire [...] (28).

Nel 1849, il 20 marzo, Carlo Alberto rompe l’armistizio con l’Austria e riprende la guerra. Il 15 febbraio La Marmora è stato nominato Capo di Stato Maggiore Generale ed ha iniziato i preparativi per l’offensiva organizzando cinque battaglioni di bersaglieri e due di volontari. Bava viene sostituito da Chrzanowski. Sul polacco esprime stranamente un giudizio positivo che dovrà ben presto rivedere: “[...] il y a bien peu de points sur les quels nous ne sommes pas d’accord et tout-a fait secondaires [...] il as un esprit clair et vif et eccellente memoire. Ses defauts a mon avis sont très secondaires» (29). La Marmora, “confiné a l’ Encrier“, passato all’amministrazione, non potrà comandare i suoi bersaglieri, dovrà vedersela con ordini e dispacci. Ma nonostante ciò sarà ovunque sul fronte del combattimento per dare ordini, incitare, correggere. Alla fine di quella guerra durata tre giorni, a Mortara, la sera del 22 marzo, quando ormai non c’è più nulla da fare, raccoglie 400 uomini della brigata Regina e muove verso il ponte dell’Arbogna per cercare di fermare l’avanzata nemica e mentre incalza con il solito coraggio gli Austriaci perde due cavalli sotto di sé. Da Mortara passa a Novara dove il 23 si svolge la famosa battaglia in cui sono impegnati tre battaglioni di bersaglieri che compiono prodigi di valore alla Bicocca e alla Cascina Forzate, dove cade eroicamente il generale Ettore Perrone di S. Martino (30), mentre alla Cascina Castellazzo cade il sottotenente Radicati di Brozolo. La Marmora raccoglie i resti della seconda divisione e li guida personalmente alle mura della città per impedirne l’accesso al nemico. Entrata la colonna da porta Mortara vuole darle il tempo di disporsi sugli spalti. A cavallo, rivolto verso gli Austriaci, con due sole ordinanze si colloca al ponte fuori porta e aspetta i nemici che vedendo un generale in quella posizione lo credono a capo di molti uomini e tergiversano incerti. Egli può così far guadagnare tempo ai suoi per una prima resistenza; poi volta il cavallo e scompare con le ordinanze.

Per la condotta tenuta a Mortara e a Novara avrà la medaglia d’argento al valor militare.

Con l’armistizio di Vignale che pone fine alle ostilità non cessano gli impegni. Poco dopo Novara scoppia a Genova un moto insurrezionale che chiede la scissione dal Piemonte e un governo repubblicano. In realtà le prime avvisaglie si erano avute subito dopo l’armistizio di Salasco nel 1848, quando su Genova erano confluiti gruppi di repubblicani, mazziniani e rivoluzionari e quando i vari sovrani degli stati italiani avevano ritirato le truppe inviate in appoggio a Carlo Alberto. Il fratello Alfonso sarà mandato dal Gioberti, allora presidente del Consiglio, ai confini della Toscana per agevolare il ritorno del granduca Leopoldo II dall’esilio e per sedare la rivolta. Egli pose il suo quartier generale a Sarzana, ma fu raggiunto dalla notizia che il ministero Gioberti era caduto. All’aprirsi delle ostilità nel 1849, riceveva l’ordine di marciare per Pontremoli su Parma con la sua sola divisione (31).

A Parma sarà raggiunto da una lettera di Alessandro, da Momo, del 25 marzo 1849, con cui lo informa del disastro di Novara: “Tutto è perduto. Non ho tempo a darti minuti ragguagli. Ramorino cominciò per non obbedire e invece di occupare la forte posizione della Cava come gli veniva ordinato, se ne rimase colla maggior parte delle sue truppe sulla destra del Po. Egli sarà processato. È probabile che abbia preso denaro per tradire” (32).

Nel frattempo Alfonso, il 28 marzo, ebbe l’ordine di muovere su Genova. Per strada gli arrivò la nomina a Commissario Straordinario della città di Genova con quella di luogotenente generale (33). La Marmora precede il grosso della spedizione con due compagnie di bersaglieri e un plotone di cavalleria. Il 3 marzo stabilsce il suo quartier generale a Pontedecimo. Prima di attaccare la città concepisce il disegno di occupare i forti che la circondano. L’impresa, condotta con celerità, riesce, ma la divisione è ancora lontana e i rivoltosi si stanno riorganizzando. La situazione sta diventando critica. La Marmora tenta di venire a trattative, ma non risolve molto. Fortunatamente giunge volontariamente il fratello Alessandro, avvisato a Pontedecimo. Scrive Alfonso nella sua Relazione: “In questi frangenti giungeva mio fratello, il capo dello stato maggiore dell’esercito, il quale arrivato da pochi momenti a Pontedecimo, uditovi l’esito del mio colpo di mano, accorreva in tutta fretta, prevedendo la posizione delicata in cui mi trovavo, per causa delle poche truppe che avevo con me. Io mi valsi del suo nome e della sua autorità ed influenza onde mantenere fermi d’animo i Bersaglieri di cui fu il fondatore. Imperocché costoro, venuti da San Quirico il mattino, dopo aver combattuto da più ore senza aver ricevuto cibo, o ristoro di sorta, moltiplicandosi colla celerità, facendo fronte da ogni parte, cominciavano a sentir la stanchezza ed a riconoscere la difficoltà dell’impresa. Ciò nullameno, rincorati dalla vista e dalla voce dell’antico loro Capo, continuarono a difendere tutta la linea occupata, contro i vari e disordinati sforzi degl’insorti, i quali raccolti a gruppi nelle case e viottoli, che dalla cinta conducono in città, mantenevano vivo il fuoco. Giunse frattanto una terza compagnia di Bersaglieri, e questo soccorso valse a rinvigorire tutti d’animo” (34).

A sera arrivò finalmente il grosso della divisione. Osserva La Marmora: “Le truppe cucinarono in quella notte il rancio che non avevano potuto mangiare nel giorno, e riposarono alla meglio” (35).

Il giorno dopo, 5 aprile, Alfonso marciava su Genova con l’esercito disposto su tre colonne precedute da bersaglieri e, dopo alcune ore di combattimento, riuscì ad occupare la città e a riportare la calma. Alle cinque del pomeriggio, come disse egli stesso, poteva considerarsi “padrone della città” (36). Il 6 aprile La Marmora concederà ad una deputazione di cittadini di recarsi a Torino “onde ricorrere direttamente alla clemenza sovrana” (37) e vennero sospese le ostilità per quarantotto ore. La città si arrende ed incominciano ad arrivare le truppe richieste per presidiarla. Il giorno 11 La Marmora poteva farvi ingresso con le sue truppe, accolto molto freddamente dai genovesi (38).

Il 2 novembre 1849 Alfonso diventerà ministro di Guerra e Marina e Alessandro ne prenderà il posto al Comando della divisione di Genova. Sarà promosso tenente generale nel 1852, mantenendo lo stesso comando. A Genova, tra le altre incombenze, pensa costantemente alla riorganizzazione di Corpo. Già dal settembre 1849 aveva presentato una Relazione in tal senso (39). L’allora ministro Bava ne aveva ridotto gli effettivi. Alfonso La Marmora ne autorizzerà l’aumento a dieci battaglioni. A Genova Alessandro creerà una Scuola Centrale unitaria di grande valore per creare i comandanti e promuovere l’affiatamento tra gli ufficiali e tra questi e il Capo, formando quello spirito di Corpo che sarà la caratteristica principale dei bersaglieri. Creerà anche una scuola per il combattimento della fanteria.

Nel 1854, il primo luglio, proprio a Genova, Alessandro convolerà a nozze con la nobildonna Rosa Roccatagliata, vedova di Domenico Rati Opizzoni.

Si guadagnerà nel frattempo la stima e il rispetto della cittadinanza per il comportamento tenuto durante l’epidemia di colera scoppiata nell’estate che fece tremila morti fra la popolazione, centotrenta fra i soldati e ventidue fra gli ufficiali. Egli stesso si documenterà sulle cause, sugli effetti e sui rimedi della malattia e pubblicherà un opuscolo dal titolo Cholera morbus del 1854.

L’anno dopo i Piemontesi prendono parte alla guerra in Crimea. Le ostilità, come è noto, ebbero inizio nel 1853 con l’invasione da parte della Russia dei principati danubiani, vassalli della Turchia. Nel 1854 la Francia e l’Inghilterra, preoccupate di impedire un eccessivo ingrandimento da parte della Russia, intervennero a fianco della Turchia per il mantenimento dello statu quo.

Anche il Regno di Sardegna, per iniziativa di Cavour, intervenne nel 1855 in favore delle Potenze occidentali con un corpo di spedizione di 15.000 uomini il cui comando fu affidato ad Alfonso La Marmora.

Il 14 aprile 1855 Vittorio Emanuele II distribuiva ad Alessandria le bandiere ai reggimenti che partivano per l’Oriente. Il corpo di spedizione, affinché tutto l’esercito sardo contribuisse alla sua formazione con “proporzionati contingenti”, fu costituito da “reggimenti provvisori” di fanteria, composti ciascuno da quattro battaglioni, prelevati da diversi reggimenti. Allo stesso modo si procedette con la cavalleria, il cui “reggimento provvisorio” venne formato con gli squadroni provenienti dai reggimenti regolari di cavalleria leggera, e per l’artiglieria, alla quale ogni brigata fornì una batteria, la prima di ogni brigata (40). Vennero formate così cinque brigate: la prima di riserva, mentre le altre formavano due divisioni. Ogni brigata consisteva di un “reggimento provvisorio” di quattro battaglioni, un battaglione di bersaglieri e una batteria di cannoni (41). Le divisioni erano comandate, la prima, dal generale Giovanni Durando, fratello di Giacomo (42), nominato ministro della Guerra al posto di Alfonso La Marmora, l’altra dal tenente generale Alessandro La Marmora, la seconda e la terza brigata (che componevano la prima divisione) erano comandate dai maggiori generali Manfredo Fanti (43) ed Enrico Cialdini (44). I bersaglieri disposti in cinque battaglioni provvisori, tratti da due compagnie per ognuno dei dieci battaglioni effettivi, vennero posti a rinforzo delle brigate di fanteria. Gli imbarchi avvennero a Genova. Il 16 aprile La Marmora passò in rivista le truppe sulla spianata alla foce del Bisagno. La partenza fu funestata dall’incidente del Croesus una delle navi più grandi e moderne della flotta britannica che trasportava ingenti quantitativi di materiali e scorte. La partenza doveva avvenire il 21, ma fu ritardata al 24 per completare il carico. Era stato concertato che ogni nave a vapore dovesse rimorchiare una nave a vela per aumentare le dimensioni dei convogli, a scapito della velocità, e assicurare una maggiore regolarità di marcia non sottoposta all’instabilità dei venti. Il Pedestrian, la nave a vela che doveva essere trainata, sbagliò la manovra, anche a causa del forte vento, e investì violentemente il Croesus. I danni furono subito riparati e le navi salparono. Al largo di Camogli scoppiò però un incendio sul Croesus che lo distrusse quasi completamente e vennero persi del tutto viveri, attrezzature, cavalli, munizioni.

Le prime navi partirono il 30 aprile con Alfonso La Marmora. Ai primi di maggio, poco meno della metà degli uomini del corpo di spedizione erano in mare. Le navi seguivano rotte diverse: alcune passavano al largo delle coste italiane per poi passare attraverso lo stretto di Messina e attraversare lo Jonio. Altre raggiungevano Malta, tenendosi più vicine alla Corsica e alla Sardegna e superando la punta occidentale della Sicilia. Tutte dovevano circumnavigare il Peloponneso, passando a sud di Capo Matapan, tagliare l’Egeo fino a Tenedos ed entrare nei Dardanelli (45).

Alfonso, imbarcato a bordo del Governolo arrivò a Balaklava l’8 maggio. Là incontrò immediatamente i capi della spedizione: l’inglese Lord Raglan, il francese Canrobert, il turco Omar Pascià. Balaklava era una “topaia” come l’aveva chiamata Cavour. Quello che era un limpido specchio d’acqua era stato trasformato in una cloaca dai rifiuti lasciati da mesi da decine di migliaia di uomini cui si aggiungevano relitti vari e carogne di animali. La Marmora installò il suo quartier generale su una altura vicina a Kadikoi, la truppa si accampò a Karani.

Alessandro La Marmora, dopo parecchie fatiche per la preparazione della sua divisione, lasciava Genova la sera del 19 maggio 1855. Riunì il suo stato maggiore al Palazzo Ducale sede del comando (46), e da lì si avviò al porto attraversando la città a piedi, accompagnato dalla moglie, e si imbarcò sulla Costituzione. Ricordava il suo aiutante di campo Emilio Borromeo: “Durante la traversata il Generale sempre affabile con tutti, si inquietava solo per l’ozio al quale era obbligato ed avrebbe voluto accelerare la marcia” (47).

Il 28 maggio si arrivò a Balaklava e il 29 avvenne lo sbarco. Il Corpo era finalmente riunito. Si trattava di un esercito non molto grande, ma ben organizzato e ben armato che fece dire al generale francese Bosquet: “Vous avez là un bijou d’armée” (48). Scriveva nel suo Diario Margherita Provana di Collegno, in data 4 giugno: “I giornali inglesi sono pieni di corrispondenze dalla Crimea in cui si parla con caldissima ammirazione delle truppe sarde. I bersaglieri e la cavalleria piacciono particolarmente” (49).

Nel frattempo il campo venne spostato. Mentre il quartier generale rimane a Kadikoi, venne sgomberata Karani, luogo infelicissimo. Francesi e Piemontesi occuparono la riva sinistra del fiume Cernaia. I Piemontesi sistemarono un nuovo accampamento a nord di Kamara. Stabilirono anche due avamposti sulla sponda destra del fiume.

Quando i Piemontesi arrivarono in Crimea, in realtà le operazioni militari alleate erano già iniziate da un po’ di tempo. Lo sbarco alleato era avvenuto il 13 settembre 1854. già c’era stata la grande battaglia dell’ Alma il 20 settembre, che aveva aperto agli alleati la strada per Sebastopoli. Il 25 ottobre si era avuta l’infelice pagina di Balaklava. Il 17 ottobre erano iniziati i primi bombardamenti di Sebastopoli, bombardamenti che continuavano periodicamente anche dopo l’arrivo dei nostri.

Attorno alla città erano state costruite grandiose opere d’assedio da parte degli alleati e, non di rado, i nostri ufficiali si recavano a visitarle. L’allora sottotenente Ricci, che diventò poi generale, scrive che erano “veramente qualchecosa di gigantesco. Figurati una ventina di chilometri di trincee, strade coperte, corridoi, sotterranei che s’incontrano, si tagliano, si attraversano, si sovrappongono in vario senso, e di tratto in tratto enormi batterie, ridotti, posti di guardia, magazzini interrati, lunghe file di feritoie ed altre cose simili” (50).

Attorno alla città ferveva un lavoro continuo, incessante, di giorno e di notte. Di notte, poi, “il fuoco si fa spesso vivissimo e ciò proviene da questo, che le tenebre proteggendo meglio il lavoro, quando, per mezzo di palle luminose ed altri mezzi simili assedianti od assediati riescono a scoprirne o sospettarne la direzione, vi fanno subito convergere un fuoco rapido ed insistente. Non ti puoi immaginare come sia sinistro lo scroscio del cannoneggiamento che tutto ad un tratto viene ad interrompere il sonno e quale sia l’eccitamento nervoso che produce in noi non ancora avvezzi a questa lugubre musica notturna” (51).

Ma per i Piemontesi il pericolo maggiore fu il colera. I primi casi nel nostro esercito si erano avuti alla fine di maggio. Pare addirittura che sulla nave Authion fosse morto quasi certamente di colera il cappellano Astengo. La notizia non fu però divulgata. Sulla malattia si avevano nozioni imprecise e non si sapeva come combatterla. In breve tempo si propagò in modo drammatico. Il 30 maggio si ebbero 46 casi; il 4 giugno i morti erano 226 e gli ammalati 530. I più colpiti furono i bersaglieri. Alessandro La Marmora che già si era prodigato a Genova contro il morbo, continuava i suoi studi anche in Crimea. Reduce da una ricognizione agli ospedali di Baidar (52), ma probabilmente già indisposto fin dal suo arrivo, ne venne colpito il 5 giugno. Assistito dall’aiutante di campo Emilio Borromeo, fu trasferito a Kadikoi presso il quartier generale di Alfonso La Marmora. Scrisse il Borromeo: “[...] il dottor Testa si sedette, nell’ambulanza, io a cavallo di fianco alla stessa. Si marciò adagio per diminuire le sofferenze dell’illustre ammalato, la voce di Lui non sentivasi che per ringraziare. A Kadikoi il Generale fu ricoverato in una casetta: tre stanzette – tre tugurii - su di un piccolo letto da campo ricoperto con coperte di cavalli e plaids” (53). Lo circondavano il fratello, il nipote Vittorio, ufficiale di Marina, il colonnello St. Pierre, comandante dei bersaglieri, il vecchio attendente Gaudenzio, bersagliere, il cappellano Cochetti, il dottor Comissetti (54).

Spirò il 7 giugno 1855, alle ore 1,30, mentre era in pieno svolgimento il bombardamento di Sebastopoli da parte dei Francesi che si apprestavano ad attaccare la Collina Verde. Alle ore 10 del giorno stesso le spoglie di Alessandro La Marmora, avvolte in una coperta di lana, accolte in una modesta bara furono sepolte su di una collinetta quasi di fronte al villaggio di Kadikoi.

Alfonso ne fu sconvolto. Commemorò il fratello con un breve ordine del giorno alle truppe: “Immenso è il dolore che provo per tanta perdita [...] ma scemare d’animo nelle attuali circostanze sarebbe un delitto” (55).

Scrivendo al Dabormida si lamentò che nè Durando né Cavour gli avessero inviato una riga di condoglianze e forniva segretamente le cifre dell’epidemia: 900 morti, 2000 malati, 30 morti fra ufficiali e impiegati (56). Scrivendo alla moglie Giovanna Berthie Mathew, il 9 giugno 1855 da Kadikoi, notava sconsolato: “Povero Alessandro! Che perdita per la famiglia e per l’Esercito. Per me era l’uomo sul quale potevo contare in qualunque circostanza: sono inconsolabile! Che soldato e che cuore aveva Alessandro! Tutti piangevano alla sua morte” (57). Giunsero condoglianze dalla regina Vittoria, da Lord Raglan, comandante della spedizione, destinato a morire anche lui di colera in Crimea, dal generale Pélissier, subentrato al Canrobert nel comando del corpo francese. Notava sconsolata Margherita Provana di Collegno: “Per un così prode soldato e per un La Marmora è crudele morire di malattia davanti al nemico” (58).

Quello che non aveva potuto fare La Marmora lo fecero però i suoi bersaglieri. Il 16 agosto 1855 essi scrissero la più bella pagina dello loro storia combattendo alla Cernaia. La battaglia fu preceduta il 17 giugno da un attacco francese ai forti di Sebastopoli, al quale parteciparono anche i bersaglieri e parte del corpo piemontese con l’incarico di proteggere l’ala sinistra francese. Un mese dopo i Russi schierarono sulla destra del fiume dopo 70.00 uomini e 300 cannoni e di disposero all’attacco. Gli alleati si distendevano per otto chilometri sulla sinistra. Al centro stavano i Piemontesi sul monte Hosfort, chiave della posizione; alla sinistra sui monti Fediukhine si disposero le divisioni francesi mentre alla destra si collocarono alcuni battaglioni turchi. Il comandante russo Gortzchakoff scelse per l’attacco la notte di San Napoleone sul 16 agosto, pensando che i francesi sarebbero stati provati dai festeggiamenti. Alle due del mattino del 16 agosto lunghe e fitte colonne di truppe russe incominciarono a scendere dall’altopiano McKenzie e dalle colline della valle dello Sciuliù. Una nebbia molto fitta copriva la vallata della Cernaia, ancora nell’oscurità. Poco prima delle 4 le truppe appartenenti all’ala sinistra del generale russo Liprandi attaccarono l’avamposto dei piemontesi detto Zig-Zag. La seconda divisione piemontese, già al comando di Alessandro La Marmora, ora del generale Trotti (59) fu la prima ad essere investita. L’avamposto era difeso da 350 uomini al comando del maggiore Corporandi che dovette ritirarsi in buon ordine. La Marmora schierò sulla destra la divisione Durando per fronteggiare i russi provenienti dalla valle dello Sciuliù; la divisione Trotti stava invece a sinistra verso il ponte di Traktir, collegata con i francesi sulle alture Fediukhine. La brigata Giustiniani era posta di riserva. Allo spuntare del giorno, i russi superarono il fiume sul ponte di Traktir, attraverso i guadi e sulle passerelle buttate dai genieri. I francesi furono duramente impegnati sul ponte di Traktir, parvero vacillare. Ma si ripresero e ricacciarono il nemico, battuto dall’artiglieria che apriva varchi ingenti negli schieramenti. Caddero colpiti anche i generali russi Read e Wrevskij. Sul fronte piemontese, i bersaglieri del 4o battaglione al comando del capitano Chiabrera passarono il fiume e si congiunsero alle truppe del maggiore Corporandi. Chiabrera, che era in anticipo di un’ora per un errore della tromba di servizio, si spinse a metà del declivio nemico ed incontrò i russi che salivano all’attacco. I nostri li lasciarono avvicinare e poi aprirono il fuoco ma furono costretti ad un lento ripiegamento. Vennero soccorsi dal comandante del battaglione il maggiore Della Chiesa e si lanciarono all’assalto. I russi furono respinti. All’estrema destra la brigata Cialdini attaccò il Colle Verde con la compagnia bersaglieri del capitano Melegari e costrinse il nemico a ripiegare: era la vittoria.

I russi ebbero perdite per più di 8000 uomini; tra morti, feriti e dispersi.

Erano caduti tre generali con 69 ufficiali. I francesi, grazie alla buona posizione occupata, ebbero perdite abbastanza ridotte: tra morti, feriti e dispersi 1470 uomini di truppa e 70 ufficiali.

Per i piemontesi le perdite non furono gravi: si parlò prima di 400 uomini (con 160 morti), poi ridotti a 200. In realtà i morti furono pochissimi: 14 periti nello scontro e 15 feriti gravi deceduti nei giorni successivi (60).

La Marmora e i piemontesi ebbero grandi elogi dalla stampa di diversi paesi e congratulazioni da parecchi uomini politici, a volte perfino eccessive (61).

Le operazioni militari in Crimea si chiusero con la caduta di Sebastopoli l’8 settembre 1855. La città fu sottoposta ad un intenso bombardamento per tre giorni e mezzo e tre notti. Quasi 10.000 uomini vennero messi fuori combattimento. Il giorno 8 la città cadeva investita da 6.000 francesi e quindi sottoposta ad un furibondo saccheggio.

Le truppe alleate trascorsero l’inverno in Crimea, mentre in occidente avevano luogo incontri diplomatici culminati il 30 marzo con la conferenza di Parigi e la ratifica del trattato di pace. Nel giugno del 1856 il corpo di spedizione piemontese ritornava in patria e Genova lo accoglieva festante il giorno 15. La Marmora era partito il 19 maggio a bordo del Governolo, lasciando Alessandro a Kadikoi. Il 15 settembre 1855 la moglie di Alessandro, Rosa, gli aveva scritto da Torino: “egli rimarrà là su quel monticello ove più nessuno di quei che lo conobbero e lo amavano andrà a recare un saluto, una lagrima, una preghiera” (62) e lo pregava di fare l’impossibile per rimpatriarne la salma. A Torino, mentre Vittorio Emanuele II passava in rassegna le truppe reduci dalla Crimea, Alfonso che cavalcava al suo fianco, gli disse con le lacrime agli occhi: “Vostra Maestà voglia perdonarmi, ma io penso al mio povero fratello Alessandro morto laggiù senza la gioia, così preziosa a un soldato di poter morire combattendo” (63).

Due mesi dopo la morte del fratello, Alfonso fece costruire una tomba degna di accoglierne le spoglie presso gli antichi forti genovesi, ma Alessandro non vi fu mai ospitato.

Il corpo di Alessandro La Marmora rimase in Crimea per oltre 56 anni. A seguito di numerose sollecitazioni e proposte da parte del 1o reggimento bersaglieri, società di combattenti e privati e per interessamento del conte Mario degli Alberti La Marmora, venne nominata una Commissione che il 20 maggio 1911 si recò in Crimea per via di terra per riportare le spoglie del generale. Il 18 maggio, giunta a Sebastopoli la nave Agordat che ne doveva trasportare il feretro la commissione procedette alla ricognizione dei resti del generale nel piccolo cimitero di Kamara e ne redasse apposito verbale (64). Il 1o giugno 1911, mentre la nave con l’urna dei resti navigava da Sebastopoli a Costantinopoli. L’ Agordat arrivò a Genova il 12 giugno. Il 14 giugno la salma giunse a Biella alle ore 19,08 accolta con tutti gli onori. I resti del generale rimasero per tutta la notte in un apposito vagone ferroviario. Il giorno dopo, con un’imponente manifestazione, vennero collocati nella cripta della chiesa di S. Sebastiano, accanto al fratello Alfonso e a tutti i La Marmora.

Giorgio Giordano


NOTE

1) Queste prime notizie sono fornite da una biografia scritta di pugno dalla sorella di Alessandro, Elisabetta Massel di Caresana, il cui originale si trova nel Museo Storico dei Bersaglieri di Roma, dono del conte Mario Mori Ubaldini degli Alberti.

2) Alberto Ferrero della Marmora nacque a Torino il 7 aprile 1789. nel 1806 fu allievo della scuola militare di Fontainebleau. Il 4 maggio 1807 fu nominato sottotenente del primo reggimento fanteria di linea. Partecipò alle guerre napoleoniche e successivamente alla campagna di Grenoble. Con la Restaurazione fece carriera nell’esercito piemontese e divenne capitano dei granatieri. Dispensato dal servizio militare nel 1821, verrà mandato in Sardegna nel 1824, dove potrà dedicarsi ai suoi studi sull’isola che illustrerà in diverse pubblicazioni. Nel 1831 diventò maggiore nel corpo di Stato Maggiore generale e nel 1834 venne nominato colonnello. Nel 1840 fu promosso maggior generale, destinato al comando della Regia Scuola di Marina, e Ispettore delle miniere. Nel 1848 divenne senatore del Regno. Fu collocato a riposo nel 1851. Morì a Torino il 18 maggio 1863 e fu sepolto a S. Sebastiano a Biella. (V. M. CASSETTI, G. BOLENGO, Alberto Ferrero della Marmora generale e scienziato (1789 – 1863), Catalogo della mostra documentaria, Vercelli, Gallo 1989).

3) Lo stato di servizio è stato pubblicato da R. PIOLA CASELLI, Alessandro La Marmora e i Bersaglieri, Milano, Zucchi 1936. Cfr. M. CASSETTI, G. BOLENGO, op. cit.

4) Primo Segretario di Stato per gli Affari di Guerra e Marina, come si diceva allora, era Matteo Agnés Des Geneys, nato a Chiomonte il 15 ottobre 1763. Combatté con i francesi, poi fu creato Primo Segretario da Carlo Felice nel 1821. Morì a Torino il primo luglio 1831.

5) “Prima proposta del Capitano Ferrero della Marmora, Capitano nei Granatieri Guardie, al Ministero per la formazione di una compagnia di Bersaglieri e di un’arma per loro uso” (pubblicata integralmente da R. PIOLA CASELLI, op. cit., appendice 2; che pubblica anche integralmente la “Proposizione” del 1835).

6) R. PIOLA CASELLI, op. cit., p. 26.

7) Ibidem.

8) Ibidem, p.29.

9) Ibidem, p.344.

10) Ibidem, p.347.

11) Ibidem, p.23.

12) Ibidem.

13) Nel 1837, l’11 marzo, Carlo Alberto gli concedeva un’indennità di lire 1.550 “per rifarlo delle spese cui supplì del proprio per l’effezione di diversi modelli d’arme“. (Cfr. M. CASSETTI, G. BOLENGO, op. cit. p.29)

14) Eusebio Bava nacque a Vercelli nel 1790. Ancor giovanetto entrò all’Accademia militare di Saint-Cyr a Parigi, nel 1802. Partecipò alle campagne del 1806 e del 1807 in Prussia e Polonia con gli eserciti napoleonici, meritandosi la nomina a sottotenente nel 1808. Nel 1808-1809 partecipò alla campagna di Spagna. Ferito e fatto prigioniero, fu condotto in Inghilterra. Riuscì a fuggire nel dicembre del 1810 e raggiunse il proprio Corpo in Spagna. Prese parte anche alle campagne del 1811-1812-1813. Passato nell’esercito piemontese fu a Grenoble. Nel 1819 fu creato maggiore, nel 1830 colonnello, nel 1839 fu chiamato a comandare la divisione militare di Torino e poco dopo nominato luogotenente generale. Nel 1847 fu governatore della divisione di Alessandria e nel marzo 1848 assunse il comando del 1o Corpo d’Armata sardo. Vincitore a Goito, nel novembre del 1848 ebbe il comando supremo dell’esercito sardo. Senatore del Regno, morì a Torino il 30 aprile 1854.

15) R. PIOLA CASELLI, op. cit. p.24.

6) “Proposizione” del 1835. (Cfr. R. PIOLA CASELLI, op. cit. p.34).

17) Emanuele Pes di Villamarina nacque a Torino il 15 novembre 1777 da famiglia di origine sarda di nobiltà recente. Abbracciò la carriera militare entrando nel 1794 nel corpo dei granatieri. Dopo Cherasco combattè con i francesi, ma, scacciati questi ultimi, chiese di passare, il 14 dicembre 1799, al servizio dell’Austria; fece la campagna invernale 1799 – 1800 combattendo negli avamposti della Val di Susa. Preso prigioniero, fu condotto in Francia. Dopo Marengo rientrò nel suo reggimento a Ferrara e chiese, ottenendolo, di ritornare in Sardegna, dove si sposò con Teresa Sanjust di San Lorenzo. Rientrato in Piemonte con Vittorio Emanuele I, diventò maggiore di cavalleria. Nel 1815 fu aiutante generale del La Tour e divenne maggior generale e ispettore della fanteria. Consigliere di Stato con Carlo Alberto nel 1831, diventava ministro di Guerra e Marina il 5 aprile 1832, carica che tenne fino al 1846. Fu nominato senatore nel 1848. Morì il 5 febbraio 1852. (Cfr. il profilo di N. NADA premesso a La Revolution piémontaise de 1821 e altri scritti del Villamarina, Torino Centro Studi Piemontesi. 1972).

18) M. CASSETTI, G. BOLENGO, op.cit., p.29.

19) Carlo Corsi, generale e scrittore militare, nacque a Firenze il 21 ottobre 1826. Prese parte a tutte le campagne del Risorgimento. Comandò a Napoli il X Corpo d’Armata. Fu grande ufficiale dei Ss. Maurizio e Lazzaro. I brani sono tratti da Venticinque anni in Italia (1844 – 1869) (Cfr. R. PIOLA CASELLI op.cit., pp. 42 – 44).

20) Cfr. R. PIOLA CASELLI op.cit. pp. 42 – 44

21) Ibidem, p.45.

22) Particolari apprezzamenti si ebbero anche da altri alti ufficiali francesi, come il generale Saint-Yon, il colonnello Marat ed il maggiore Robert. Nel 1837 lo Spectateur Militaire ne parlava in modo estremamente positivo.

23) E. BAVA, Relazione delle operazioni militari della campagna di Lombardia nel 1848, rist. an., Vercelli, Besso, 1985, pp. 15 - 16.

24) M. CASSETTI, G. BOLENGO, op.cit., p.37.

25) Ibidem, pp. 39 – 41.

26) E. BAVA, op.cit., p.86.

27) M. CASSETTI, G. BOLENGO, op.cit., p.45.

28) Lettera al fratello Alfonso, da Castel S. Giovanni, del 13 dicembre 1848. (M. CASSETTI, G. BOLENGO, op.cit., p.47).

29) M. CASSETTI, G. BOLENGO, op.cit., p.49.

30) Ettore Perrone di San Martino, nato a Torino nel 1789, combatté con le armate napoleoniche in Prussia e in Polonia, meritandosi a Wagram la Legion d’Onore; fu in Spagna e in Russia, dove rimase ferito. Pervenne al grado di luogotenente generale. Nel 1848 prese parte al blocco di Mantova. Fu deputato di Ivrea, ministro degli Esteri e Presidente del Consiglio dei Ministri. Cadde a Novara il 23 marzo 1849, medaglia d’oro al valor militare.

31) Alfonso La Marmora diede la sua versione sui fatti di Genova in Un episodio del Risorgimento italiano, Firenze, Barbera, 1875. Si trattava della VI Divisione forte di 7.670 uomini, poi rinforzata con altri 2.875. Della divisione facevano parte anche quattro compagnie di bersaglieri.

32) La lettera è pubblicata pressoché integralmente in: A. LA MARMORA, Un episodio, cit. pp. 58 – 62. In realtà Ramorino, come nota lo stesso Alfonso, non tradì “né con gli Austriaci, né coi Mazziniani”, ma fu condannato “per l’atto di flagrante disubbidienza che ha compromesso l’esito della campagna, delitto contemplato dal nostro codice militare, e punito con la pena di morte” (p. 64).

33) A. LA MARMORA, op.cit, p.77.

34) A. LA MARMORA,. op.cit, pp. 94 – 95.

35) Ibidem, p. 96.

36) Ibidem, p. 105.

37) Ibidem, p. 117.

38) “Durante l’ingresso delle mie truppe, e ancora dopo, i cittadini si erano ritirati nelle loro case, chiudendo tutte le porte e tutte le finestre; per cui le vie erano tutte deserte“. (A. LA MARMORA, op.cit, p. 130).

39) “Bersaglieri – Sull’organizzazione e particolarmente della forza dei medesimi relativamente all’armata” (8 settembre 1849). Archivio Museo Storico dei Bersaglieri, Roma.

40) V. P.G. JAEGER, Le mura di Sebastopoli. Gli Italiani in Crimea 1855 – 1856, Milano Mondadori, 1991 p.195.

41) Non mancarono critiche ad un tale modo di operare. Leggiamo infatti nel Diario di Margherita Provana di Collegno, alla data del 27 luglio 1855: “Il Generale Broglia che è qui [a Torino] per ispezionare le truppe, dice che fu un grande errore di La Marmora quello di sfiorare tutti i reggimenti per formare, per così dire, un bouquet da mandare in Crimea. Primieramente il mandare al fuoco soldati ed ufficiali che non si conoscono è cattiva regola, perché manca la fiducia fra di loro, un secondo, la truppa che è rimasta in paese è così snervata e disorganizzata da quel prelevamento che ne fu fatto, che si può dire quasi annullata”. (M. PROVANA DI COLLEGNO, Diario politico di Margherita Provana di Collegno 1852 – 1856, illustrato con note e documenti inediti a cura di Aldobrandino Malvezzi, Milano, Hoepli, 1926, p. 278. Si tratta del generale Mario Broglia di Casalborgone.

42) Giovanni Durando, nato a Mondovì nel 1804, fu affiliato alla “Giovine Italia” e costretto all’esilio. Avendo avuto la carriera troncata in Piemonte, combatté negli eserciti di Spagna e Portogallo. Tornato in Italia, riorganizzò l’esercito pontificio (1842 – 1848) che guidò durante la partecipazione alla prima guerra per l’indipendenza. Licenziato da Pio IX e riammesso nell’esercito piemontese, prese parte a tutte le guerre del nostro Risorgimento. Fu Collare dell’Annunziata e Grande Ufficiale dell’ordine Militare di Savoia. Morì nel 1869.

Giacomo Durando, nato a Mondovì nel 1807, cospirò nella “Giovine Italia” e peregrinò all’estero. Nel 1847 presentò con Cavour e Brofferio la domanda della Costituzione a Carlo Alberto. Partecipò alle campagne del 1848 – 1849 e alle guerre per l’indipendenza, divenendo tenente generale. Fu deputato, senatore, ministro della guerra, ambasciatore a Costantinopoli, ministro degli Esteri, Presidente del Senato. Morì nel 1894.

43) Manfredo Fanti, nato a Carpi (MO) nel 1806, implicato nei moti di Modena del 1831, esulò in Francia e in Spagna. Tornò in Italia nel 1848 e partecipò alla battaglia di Novara. Prese parte alla guerra del 1859. Comandò la campagna nelle Marche, guadagnandosi una medaglia d’oro al V.M. Fu ministro della Guerra e Senatore. Fondò l’Accademia di Modena. Morì nel 1865.

44) Enrico Cialdini, nato a Castelvetro (MO) nel 1813, compromesso nei moti liberali del 1831, fu costretto all’esilio fino al 1847. Dal 1848 partecipò a tutte le guerre del Risorgimento. Comandò le campagne nelle Marche e nell’Umbria. Vinse le truppe pontificie a Castelfidardo. Prese Ancona, assediò Gaeta e la conquistò nel 1861. In conflitto con Alfonso La Marmora, contribuì al cattivo esito della campagna del 1866. Fu Senatore, Collare dell’Annunziata, ambasciatore. Morì a Livorno nel 1892.

45) Cfr. P.G. JAEGER, op. cit., pp. 233 - 234

46) Lo Stato Maggiore era composto dal maggiore Pairino; dai capitani Mazè e Rapallo; dagli aiutanti di campo Colli e Borromeo; dagli ufficiali addetti Caccialupi, Mazzoleni e Valentani e dagli ufficiali aggregati Ricasoli e Vimercati.

47) R. PIOLA CASELLI op.cit., p.112.

48) P.G. JAEGER, op. cit., p.197.

49) M. PROVANA DI COLLEGNO, op. cit., p.269.

50) A. RICCI, In Crimea. Ricordi, “Rivista Militare Italiana”, anno XXX, tomo III, Roma 1885. V. anche: AA. VV., Sebastopoli. La guerra di Crimea, Torino Museo Nazionale di Artiglieria, 1997, in cui il testo è pubblicato.

51) A. RICCI, op. cit., p. 86.

52) “C’erano ospedali mobili a intervalli regolari tra Baidar e Kamiech, nei quali i malati si fermavano a passare la notte e dove si lasciavano i morti e i moribondi”. A Kamiech “c’erano grandi baracche con letti da campo e pagliericci. C’era anche una baracca speciale nella quale, dopo un esame sommario, si facevano entrare gli appestati, e la maggior parte di quelli che entravano, ne uscivano solo per finire nella fossa”. (J.M. DEGUIGNET, Memorie di un contadino, Milano, Rizzoli, 2005, p.154.

53) R. PIOLA CASELLI, op.cit., p.115.

54) Giovanni Antonio Comissetti, nato a Pezzana (VC) il 27 marzo 1805, entrò nel Corpo Sanitario Militare il 14 ottobre 1843. Il 3 aprile 1849 venne nominato chirurgo maggiore e assegnato all’Ospedale Militare Divisionale di Torino nel 1850. Fra il 1850 e il 1851 fu medico militare divisionale di seconda classe a Chambery e poi a Genova (1853 – 1855). Partecipò alla spedizione in Crimea in qualità di capo dei servizi sanitari. Fu ispettore medico durante la guerra del 1859 e nella campagna dell’Italia meridionale e pervenne alla più alta carica sanitaria militare: Presidente del Consiglio Superiore Militare di Sanità del Regno d’Italia dal 1862 al 1873. Sulla sua esperienza in Crimea pubblicò poi Sulle malattie che hanno dominato in Oriente fra le truppe del corpo di spedizione sardo, Torino Tip. Subalpina, 1857. Morì a Torino il 24 settembre 1882. Su di lui: G: SARASSO, Giovanni Antonio Comissetti medico-capo del corpo di spedizione in Crimea,”Bollettino Storico Vercellese”, n.2, a. II. 1973, pp. 77 – 89.

55) R. PIOLA CASELLI, op.cit., p.117.

56) P.G. JAEGER, op. cit., p.273.

57) R. PIOLA CASELLI, op.cit., p.121; anche in:CASSETTI, BOLENGO, op.cit.

58) M. PROVANA DI COLLEGNO, op. cit., p.271.

59) Ardingo Trotti, nato a Cassine (AL) nel 1797, morto a Torino nel 1857; medaglia d’oro al V.M. per l’eroico comportamento tenuto a Governolo il 18 luglio 1848. Sostituì Alessandro La Marmora nel comando della II Divisione in Crimea. Diventò luogotenente generale e fu deputato. Scriveva Margherita Provana di Collegno nel suo Diario, alla data del 27 giugno 1855: “Oggi s’imbarca e parte il Generale Trotti per Balaklava sul Jura che rimorchia il Lady Russel”. E in data 28: “Il Generale Trotti partì con tanta furia ieri da Genova che dimenticò a terra la valigia delle lettere e l’impiegato della Posta” (p.274).

60) Cfr. P.G. JAEGER, op. cit., pp.315 –316.

61) Come nota Gianfranco E. DE PAOLI: “La Cernaia in sé non fu un grande scontro, ma l’aver superato la prova onorevolmente sotto gli occhi dei generali alleati fu importante. Se non cancellò Novara, ne attutì il ricordo”. (Vittorio Emanuele II. Il Re, l’uomo, l’epoca, Milano, Mursia, 1995, p. 131). Il generale francese Trochu disse che sarebbe stato “altero di comandare a così bravi soldati” (Ibidem).

62) M. CASSETTI, G. BOLENGO, op.cit., p.71.

63) E. CHECCHI, Ricordo Mesto, in “Numero Unico per il 150o della fondazione del Corpo dei Bersaglieri e per il gemellaggio Città di Biella - 18 o battaglione Poggio Scanno, Biella, 1986”, p.37.

64) Il verbale è stato riprodotto integralmente da U. STUPENENGO in: Alessandro Ferrero della Marmora, nel “Numero Unico per il 47 o Raduno Nazionale Bersaglieri, Biella, 20 – 21 – 22 – 23 maggio 1999”.

Giorgio Giordano